Il cervello di mio padre, Jonathan Franzen 
Einaudi, Collana: Quanti, 2013, Traduzione di Silvia Pareschi, pp. 30, 1,99 €, ISBN 9788858407448

Questa era la sua malattia. Ed era anche, si potrebbe dire, la sua storia. Ma permettetemi di raccontarla.

Alcuni libri hanno il potere di emozionare senza mai scadere nel patetico. Il cervello di mio padre è uno di questi. Si tratta di piccolo saggio, lungo appena trenta pagine, edito da Einaudi nella collana, integralmente digitale, i “Quanti”.

Questo racconto è tratto dalla raccolta del 2003 Come stare soli, a cura dello stesso editore.

Franzen ci racconta la lotta del padre contro l’Alzheimer, ma non si limita a questo. Ci parla dell’importanza della memoria, del consolidamento dei ricordi, del modo in cui si forma l’architettura mentale sulla quale poggia la nostra stessa identità. La discesa nell’oblio che compie suo padre diventa una preziosa occasione di riflessione sul concetto stesso di individualità.

Mi sembrava un altro esempio della medicalizzazione dell’esperienza umana, l’ultima voce della sempre più ricca terminologia del vittimismo.

Lo stile asciutto di Franzen permette al lettore di rimanere sempre distaccato rispetto alla narrazione, ma non impedisce il coinvolgimento emotivo, che però accade senza artifici, fronzoli, sentimentalismi. Il realismo del pensiero con il quale lo scrittore mette a nudo se stesso spoglia anche noi.

Dalla mia posizione attuale, nella quale passo qualche minuto al mese a irritarmi per il trentenne moralista che ero allora, riesco a vedere la mia riluttanza ad applicare il termine «Alzheimer» a mio padre come un modo per proteggere la specificità di Earl Franzen dalla genericità di una malattia nominabile.

Ci viene offerta una testimonianza unica, una “finestra di significato” sul presunto io e sul ruolo della volontà personale come scelta identitaria. Attraverso lettere, ricordi, frammenti di quotidianità, Franzen ci accompagna sul confine che divide la biologia e l’anima. Nessuna costruzione, solo puro pensiero. L’analisi, però, non è mai fine a se stessa. La ricerca di ciò che costituisce l’individuo si scontra con il dato biologico del cervello visto come un pezzo di carne, e si confronta con il rifiuto di ridurre l’identità a materia organica chimicamente organizzata. I legami umani, che Franzen disseziona come al suo solito, si riflettono nella costruzione di significato che opera la mente nella rielaborazione dei ricordi.

Mi chiedo se l’attuale sensibilità culturale al fascino del materialismo – la crescente propensione a considerare la psicologia come una questione chimica, l’identità come una questione genetica, e il comportamento come il prodotto di antiche esigenze dell’evoluzione umana – non sia intimamente connessa alla rinascita dell’oralità e al declino della parola scritta tipici dell’era postmoderna: le nostre continue telefonate, le nostre effimere e-mail, la nostra tenace devozione al luccichio del televisore.

Una storia autobiografica nella quale si rimuove, dolorosamente ma coscientemente, uno scotoma dal proprio campo visivo. Dello scrittore, e del lettore con lui.

Il racconto di una malattia talmente comune, di un dolore così diffuso che difficilmente possiamo resistere all’impulso di non farlo nostro. Ma è proprio su questo punto che Franzen compie un piccolo miracolo. Per quanto facile possa sembrare immedesimarci, non potremo mai farlo totalmente, perché la storia che lui ci racconta è la storia di Earl Franzen, e non la nostra, e in ogni riga l’identità del padre dello scrittore, dello scrittore e della madre, è preservata, tutelata, garantita. C’è un confine ben delineato fra il lettore e il narratore. Possiamo conoscere questa storia, entrare in una zona intima, essere profondamente coinvolti dalla vicenda, ma non possiamo usurparne l’identità. Ed è grazie a questa sincerità che possiamo, in fondo, salvarci.

Trovando anche noi, nel finale, la pace.

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