American Gods, Neil Gaiman
Mondadori, 2014, traduzione di Katia Bagnoli, prima ed.: giugno 2002 (strade blu), ISBN: 978-8804672371

Dopo mesi (anni?) di aggiornamenti, ritrattazioni, news varie sparse sul web e dintorni, la STARZ, casa di produzione e canale via cavo americano, ha finalmente annunciato la messa in onda della serie TV di American Gods, per il 30 aprile 2017 (in Italia trasmesso dalla piattaforma streaming di Amazon). Per chi non lo conoscesse, il libro da cui è stata tratta la sceneggiatura è da molti considerato un classico del genere fantastico. Sull’onda dell’entusiasmo e del timore per l’evento, ho deciso di rileggerlo – sono passati parecchi anni dall’ultima volta che l’avevo preso in mano e, ad essere sincera, non lo ricordavo così bene. Come spesso capita in questi casi, ci si emoziona all’idea di veder prendere vita, attraverso un nuovo mezzo, un mondo che tanto ci ha appassionato e, allo stesso tempo, si teme di vederlo rovinato. Ma non è per questa ragione che consiglio di leggerlo prima di affrontare la serie TV. Se lo consiglio è perché American Gods si merita il privilegio di popolare l’immaginazione quando questa è ancora vergine.

Credo sia un dovere che abbiamo gli uni verso gli altri, raccontarci storie. È la cosa più vicina alla preghiera del “Credo” a cui io mi sia mai accostato, o a cui, sospetto, mai mi accosterò.
(Neil Gaiman, Introduzione alla raccolta «Cose fragili»)

Neil Gaiman, come ho ri-scoperto, ha una tale potenza immaginativa, un tale amore per la narrazione, da essere goduto senza alcun tramite di altri media o preconcetti esistenti. Un talento narrativo raro, io credo, per un periodo come il nostro, in cui i limiti del romanzo e della fiction sono stati superati, destrutturati, ricostruiti e sbeffeggiati così tante volte da aver perso quasi del tutto di significato. Nella produzione di Gaiman non si trova nulla di tutto ciò, niente di “postmoderno” (mi si passi il termine). La storia, o meglio, le storie, sono l’unica cosa che conta, nonostante nella coscienza dell’autore siano ben presenti i limiti della narrazione. Le storie di Gaiman sono appariscenti, fantasiose, sproporzionate, anche; mi ricordano molto il Terry Gilliam di Parnassus, con i suoi lustrini opachi, l’opulento accumulo e le quinte di teatro che quando si chiudono rilasciano nuvoloni di polvere, accumulata da decenni. Eppure, sotto la polvere e le crepe del passato, sono ancora di una bellezza terribile.

American Gods è così: una struttura ipertrofica di storie che si affastellano una sull’altra, talvolta incrociandosi e risolvendosi a vicenda, come una casa a cui siano state fatte talmente tante aggiunte e modifiche negli anni da rendere impossibile riconoscere la pianta originale. Eppure le fondamenta sono ancora lì, solide, e reggono senza scricchiolii. E questa costante dialettica fra passato e presente, perno attorno cui ruota la moltitudine di storie, una tensione costante fra passato primordiale dell’uomo e il suo progresso, non scade mai nel pianto accorato dei bei tempi che furono. Anzi, la sensazione, quando si chiude il libro, è che il passato non sia mai finito, e che quella materia primitiva – disturbante perché informe, violenta, fatta di istinto – sia ancora lì a muovere le nostre azioni, a creare le nostre storie.

Il fantastico di American Gods si muove, perciò, ad un altro livello di quella che forse è considerata la “norma” del genere: non si trovano spade e draghi, qui, o mondi lontani. È un fantastico che si insinua fra le crepe della nostra realtà, dove può capitare di scivolare e perdersi nel nessun dove; che si muove fra inconscio collettivo e folklore, portando in superficie paure e istinti atavici del genere umano.

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