“L’estate che conobbi il Che” di Luigi Garlando, una lettura per i ragazzi a cinquant’anni dalla morte di Ernesto Che Guevara

L’estate che conobbi il Che, di Luigi Garlando
Rizzoli, aprile 2015, ISBN: 9788817080440

… “Aquí se queda la clara, la entranãble trasparencia de tu querida presencia, comandante Che Guevara”…

Non ho mai indossato una maglietta con il volto di Che Guevara, ma il mio primo viaggio da adulta è stato nella isla de Cuba. L’unica cosa che sapevo dire in spagnolo, io che come terza lingua al liceo avevo scelto tedesco, era «siempre a la izquierda». Se non ce lo avessi trascinato, al mio compagno di viaggio l’America latina nemmeno sarebbe venuta in mente: la sua meta persa ai dadi era New York. Di lui non so più niente; New York molto probabilmente non saprà mai nulla di me. Sarà che, a distanza di tanti anni, più di venti, quella canzone del Comandante Che Guevara continua a risuonarmi in testa così come ancora mi si materializzano davanti il sorriso e gli occhi allegri di un musicista che la intonava sul cayo scelto per una gita di poche ore e dove salutava con lo sguardo la sua bimba coi capelli scoloriti dal sole, e splendida nella divisa bianca e rossa al ritorno da scuola.

L'estate che conobbi il Che-garlando-rizzoli

Con questo spirito nostalgico mi sono avvicinata al romanzo per ragazzi di Luigi Garlando, L’estate che conobbi il Che. E con la certezza che, dopo Per questo mi chiamo Giovanni dedicato dallo stesso autore al giudice Falcone, non potevo certo rimanere delusa. Devo invece ammettere che la lettura di questo young adult, che nel 2017 si è aggiudicato il Premio Strega Ragazze e Ragazzi nella categoria 11-15 anni, è stata inizialmente fastidiosa. Se non fosse stato per la mia vicina di ombrellone, che qui pubblicamente ringrazio, probabilmente non lo avrei nemmeno terminato perdendomi, con l’alibi dell’antipatia che mi aveva provocato il lusso in cui viveva la famiglia del protagonista, figlio di un “tagliateste”, un’opera commovente e, sebbene forse a tratti un po’ buonista, decisamente formativa per un adolescente che sta per diventare adulto e a cui magari qualcuno ha già descritto il “nostro” Ernesto come un terrorista.

L’espediente letterario che Garlando utilizza per parlare del guerrillero heroico – il 9 ottobre saranno 50 anni dalla sua scomparsa – è sicuramente azzeccato così come la metafora del ragazzino che, non conoscendone storia e sembianze, lo aveva scambiato per Gesù Cristo. Una somiglianza che non fa certo accapponar la pelle, visto il comune amore per gli ultimi e la tenerezza di un messaggio travisato e strumentalizzato dai farisei di ieri e di oggi.

Tutto nasce da un tatuaggio, scolpito sulla spalla di una delle figure più importanti per un bambino: il nonno. Nonno a cui Cesare, voce narrante, è «legato come un’edera». E che, proprio nel giorno del suo genetliaco, ha un malore e viene trasportato in ambulanza sotto gli occhi del nipote tutto affannato e accorso in sella alla sua “poderosa” bicicletta.

L’estate in cui conobbi il Che bruciavano le colline e il Brasile prese sette gol dalla Germania. Non la dimenticherò mai. Come non dimenticherò mai la festa dei miei dodici anni che è stata l’inizio della storia e la fine di tante cose.

L’incipit ci catapulta immediatamente ai giorni nostri, nella Brianza un tempo capitale dei mobili e in cui iniziano a chiudere le fabbriche. Lì vive Cesare, che tutti chiamano “Ce”, la cui balbuzie è metafora di quell’asma che mai ostacolò Che Guevara nella sua Revolución e che qui si fa leva per spingere il ragazzo a scoprire i valori della solidarietà e dell’impegno civile. A stimolarlo è nonno Riccardo, con il suo racconto, a mo’ di cronaca dall’ospedale in cui è ricoverato, delle gesta del medico argentino e del perché ha scelto di portarselo per sempre sulla pelle.
Sullo sfondo, una famiglia “bene” in cui padre e nonno non si rivolgono la parola («Robe loro»), una madre chirurgo di fama con ben in mente il giuramento di Ippocrate e un’insopportabile fashion blogger come sorella. E poi c’è lei: Blanca, la nuotatrice figlia della “cameriera” colombiana e da subito Hilda, come il grande amore del guerrigliero Ernesto.

Ad ogni visita del nipote, e nonostante le incursioni di suor Peppa, nonno Riccardo racconterà una fase della avvincente parabola del combattente argentino. A fianco di Fidel Castro prima, fino in Bolivia poi. Ma anche chino a curare i malati e sorridente a insegnare a leggere e scrivere ai ragazzi. Senza edulcorare niente, con uno stile semplice e incalzante, Garlando riesce a interpretare il presente attraverso l’avventura di un’icona divenuta immortale. La crisi economica con «la gente che perde il lavoro che si sente come un comodino rotto sbattuto in soffitta». Il consumismo di una società che, se ha, spreca senza timore. L’importanza della lettura che apre la mente perché «se hai una catena ai piedi puoi spezzarla e liberarti, ma se ti tengono nell’ignoranza non ti liberi mai» (da qui il motto attribuito al Che “più libri, più liberi”). E l’amore quello che fa battere il cuore. I suoi due matrimoni, certo, ma soprattutto l’empatia. Il sentire con gli altri.

«Se non porto addosso tatuaggi del Che è perché credo che ogni idea, anche la migliore, debba essere sempre proposta e mai imposta e che non ci possa essere libertà di popolo se anche un solo individuo non è libero di pensare, dire e scrivere ciò che vuole. Ma non sarei la persona che sono se nonno Riccardo a dodici anni non mi avesse raccontato la storia del Comandante sulla nostra panchina rivoluzionaria, se non mi avesse insegnato una volta per tutte a sentire gli schiaffi presi dagli altri, a provare indignazione per le ingiustizie e i privilegi, a considerare il colore degli occhi prima di quello della pelle e a spezzare le catene con i libri. Questi sono i principi attivi che, da aspirante medico, ho estratto dal Che, la pastiglia buona che farà bene anche alla crescita dei miei figli e farà sempre bene a tutti. Il resto è buccia».

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