Montesquieu diceva che «un’opera originale ne fa nascere quasi sempre cinque o seicento altre, queste servendosi della prima all’incirca come i geometri si servono delle loro formule». Ci sono libri, cioè, che oltre alle qualità che di solito hanno i libri belli – che sono scritti bene, che scopri qualcosa di nuovo e interessante quando li leggi, che raccontano una storia avvincente o chissà cos’altro: ognuno ha i suoi libri preferiti – portano anche qualche novità nello stile, qualche nuovo modo di raccontare le storie o qualche modo di parlare di certe tematiche come nessuno aveva mai fatto prima, che li rendono dei modelli: modelli a cui ispirarsi, modelli da copiare, modelli da omaggiare o, quando nasce un allievo più bravo del maestro, anche modelli da superare.

Secondo Guido Sgardoli, e per quel che vale anche secondo me, uno dei maestri viventi è Stephen King. Il suo modo di raccontare il male universale come qualcosa di vivo e reale, che prolifera e miete vittime nella quotidianità di un paesotto di provincia nel Maine, è entrato nell’immaginario collettivo, è riconoscibile e, come si suol dire, ha fatto scuola. L’influenza dell’immaginario kinghiano è forte non solo in letteratura, dove gli imitatori abbondano, ma anche al cinema e nell’audiovisivo. Per esempio Stranger Things, la fortunata serie tv di Netflix, è solo l’ultimo, oltre che uno dei più riusciti, tra i prodotti che attingono a It.

Guido Sgardoli, scrittore trevigiano, territorio non so quanto paragonabile al leggendario Maine di King, ha voluto omaggiare il Re con il suo The Stone. Il romanzo, uscito nel 2017 e nella rosa del Premio Strega Ragazze e Ragazzi di quest’anno, rispetta proprio tutti i canoni del romanzo kinghiano. Per amore della cultura celtica, e forse anche per dare al romanzo un sapore, se non americano, almeno anglofono, anziché in provincia di Treviso la storia si svolge sull’isoletta irlandese di Levermoir, e questo, secondo me, è l’unico punto debole del libro. Un gruppo di ragazzini, che vivono in una comunità molto piccola, in cui tutti si conoscono per nome e tutti sanno dove abitano tutti, devono affrontare il Male, che si manifesta prima con l’evento tragico, ma isolato e personale, della morte della madre di Liam, il giovane protagonista, e poi con una serie di omicidi sempre più sospetti, fino a sfociare nella follia collettiva. I ragazzi, come nei romanzi del maestro, e come anche nella realtà, sono i più lucidi e i più coraggiosi, e le sorti di Levermoir dipendono solo da loro.

Per chi conosce e ama King, The Stone è un omaggio molto ben riuscito. Si vede che Sgardoli ha studiato, non è uno che scopiazza, ma sa usare tutti gli strumenti con equilibrio e una certa maestria. Chi Stephen King non l’ha ancora letto, invece, potrebbe scoprirlo proprio a partire da The Stone: se è vero quel che diceva Montesquieu dei capolavori e dei geometri, è anche vero che davanti a un palazzo fatto bene può venire la curiosità di sapere dove ha studiato l’architetto.

L’unica pecca di The Stone, dicevo, è che il romanzo è ambientato a Levermoir invece che a Treviso: parte della potenza delle storie di Stephen King, sta nel fatto che il Maine è casa sua, perciò quando King ne parla è più credibile; ed è grazie a questa base di credibilità che può permettersi di costruire i suoi inferni soprannaturali e seminare paura nel mondo. Non posso fare a meno di chiedermi che libro sarebbe stato The Stone se i suoi protagonisti, invece che Liam, Midrius e Dotti, si fossero chiamati Lele, Ménego e Dora e se, invece di toponimi e altri termini celtici, ogni tanto Guido Sgardoli avesse infilato qualche parola in veneto.

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